PAOLO DIACONO RACCONTA L’EPIDEMIA

Durante il periodo del governo bizantino in Italia (553-568), che precede l’arrivo dei Longobardi, nella penisola si scatena una pestilenza di cui Paolo Diacono riporta la descrizione. Siamo nel secondo libro della Historia Langobardorum. Le pagine dello scrittore friulano forniscono più di uno spunto a Boccaccio per la stesura del Decameron e anticipano Alessandro Manzoni e le sue descrizioni della peste nei Promessi Sposi.

PAOLO DIACONO
PAOLO DIACONO

Giovanni Boccaccio possedeva una copia dell’opera di Paolo Diacono. Addirittura il manoscritto era stato copiato dallo stesso scrittore toscano. Secondo alcuni studiosi fu proprio questa lettura a fornire a Boccaccio l’idea di fondo della “cornice”, cioè la pestilenza del 1348, in cui costruire il suo capolavoro.

Fra le tante sciagure che stanno colpendo l’Italia in quei secoli, la descrizione di Paolo Diacono offre l’immagine che i contemporanei potevano avere dell’epidemia.

Historia Langobardorum, L.II, 4.

“All’epoca del governo di Narsete, scoppiò una terribile pestilenza, particolarmente intensa nella provincia di Liguria. All’improvviso, sui muri delle case, sulle porte, su vasellame e stoviglie, sui vestiti comparivano certe macchie che più uno si sforzava di tirare via e più diventavano evidenti.

A un anno di distanza da questo fenomeno, la gente cominciava a soffrire di ghiandole grosse pressappoco come una noce o un dattero, che si formavano all’inguine o nelle altre parti più delicate del corpo, e a cui seguivano un’insopportabile arsura e una febbre che portavano alla morte entro tre giorni. Se una persona riusciva a superare questo periodo, poteva nutrire qualche speranza di sopravvivere. Dappertutto c’erano solo dolore e lacrime. Poiché la gente era comunemente convinta che se fosse fuggita avrebbe evitato la morte, nelle case vuote di abitanti restavano solo i cani, e il gregge restava solo sui pascoli, non custodito da nessun pastore. Su villaggi e borghi, prima pieni di uomini, l’indomani, dopo che la gente se n’era fuggita, regnava un profondo silenzio. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori. I genitori, dimentichi del frutto delle loro viscere, abbandonavano i figli in preda alla febbre. Se l’antica pietà spingeva qualcuno a voler dare sepoltura al prossimo, poi, perendo di quel che compiva, era lui a rimanere senza sepoltura. E mentre si sforzava di recare agli altri le estreme onoranze, ne restava privo. Il mondo pareva ricondotto al silenzio di ere lontanissime: non un grido nelle campagne, non il fischio di un pastore, non un’aggressione di fiere contro le greggi, non un furto nei pollai. I frumenti, con il tempo del mietere ormai trascorso, aspettavano ancora intatti il mietitore. Le vigne, nell’inverno che già s’avvicinava, mostravano sui tralci senza foglie i grappoli lustri. Di notte e di giorno s’udiva suonare una tromba di battaglia, e da molti s’era udito uno strepito d’esercito. Non si vedeva orma di gente che viaggiasse né si compivano assassini: eppure i morti erano tanti che occhio umano non avrebbe potuto contarli. Gli antri dei pastori diventavano sepolture umane, e le case degli uomini rifugio di fiere. E queste sventure colpirono soltanto i Romani e soltanto l’Italia sino al confine degli Alemanni e dei Bavari.

Nel frattempo, morto Giustiniano (14 novembre 565), gli successe nella gestione della politica Giustino il giovane. Sempre in questo periodo il patrizio Narsete, che riusciva a vigilare su ogni cosa, avendo finalmente arrestato Vitale, vescovo di Altino, che si era rifugiato a Innichen, nel regno dei Franchi, lo mandò in esilio in Sicilia.”